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«Quindi immagino lei
sia il prode… Astolfo?»
Domandò Antonio dimostrando di aver letto l’Ariosto.
«In persona…»
rispose il cavaliere manifestando un certo compiacimento per essere
stato riconosciuto. «Vedo che le mie gesta sono note anche tra i
villici…»
«Villico lo dici a tua
sorella…» mugugnai tra i denti. Poi, più interessato a
considerazioni di ordine pratico, ingoiai l’orgoglio e gli sorrisi:
«Saprebbe per caso dirci come è finito qui?»
Il prode si grattò la
testa con aria pensierosa facendo vagare intorno a sé uno sguardo a
dire il vero non troppo intelligente. «Di preciso non saprei… ero
sulle tracce di Orlando,
per rendergli finalmente il senno, quando una strana coltre di nebbia
ci avvolse facendoci perdere l’orientamento, giungemmo alfine qui,
in codesto desolato maniero, dove la bestia mi colpì facendomi
perdere i sensi… altro non so».
Antonio e io assumemmo
un’espressione delusa che evidentemente non gli sfuggì, perché
dopo un istante aggiunse: «cosa vi angustia dunque, buonomini?»
«Ecco vede… il punto
è che, lei avrà certo capito di non trovarsi esattamente nella
collocazione spaziotemporale che dovrebbe competerle, vero?» esordì
Antonio.
«Eh?» fece Astolfo
aggrottando ulteriormente le cespugliose sopracciglia.
«Lei non sta dove
dovrebbe stare» spiegai con termini a lui più facilmente
comprensibili.
«Ahhhh!» fu la sua
risposta, «m’era parso che fosse successo qualcosa di strano! Ma
sono sicuro che trattasi di vile marchingegno del truce Atlante».
«Non so chi sia questo
Atlante di cui parlate, ma l’evocazione che vi ha portato qui è
stata opera di questo messere che è anche un potente negromante!»
trillò Orienne guardandomi con ammirazione.
«Potente negromante…»
farfugliai imbarazzato, «diciamo che me la cavo».
«Quello che voleva dire
il potente negromante» rettificò prontamente Antonio gratificandomi
di un’occhiataccia, «è che lui voleva evocare solo le vostre
immagini e, per un malaugurato errore, ha invece portato a sé anche
i corpi».
«Trattossi invero di un
grave errore!» esclamò Astolfo guardandomi con aria truce, «anche
se, bisogna convenire che dietro le spoglie di un misero bifolco,
costui cela una rara potenza».
«Prima villico e poi
bifolco… io a questo gli faccio ingoiare l’ampolla…» sussurrai
ad Antonio mentre la consueta cortina rossa cominciava a velarmi lo
sguardo.
«Stai calmo» rispose
il mio amico stringendomi una spalla per riportarmi in me. Il solo
tocco, di norma, sarebbe servito a poco, ma la stretta stritolante
produsse un insolito effetto calmante.
«Adesso dobbiamo
trovare un modo per rimandarvi tutti indietro» continuò Antonio
sorridendo ad Astolfo, «solo che, ehm… per ora non sappiamo bene
come, quindi se lei che è avvezzo alla magia avesse qualche
consiglio…»
«Un sistema ci
sarebbe…» mormorò Astolfo grattandosi il mento pensieroso.
«Ohhhh!» esclamammo
all’unisono Antonio e io, visibilmente sollevati. «Molto bene,
così risolviamo questa cosa in quattro e quattr’otto, prima che
qualcuno si faccia male…» dissi sfregandomi le mani.
«Eh beh, un po’ male
farà…» bofonchiò il paladino raccogliendo la propria spada da
terra.
«Ehm che cosa?»
domandai cominciando a preoccuparmi.
«Per interrompere il
sortilegio è necessario decapitare il negromante, mi pare ovvio!»
spiegò Astolfo.
«Nossignore,
nossignore!» urlai scuotendo l’indice per rafforzare il mio
dissenso. «Questo tipo di magia non viene annullato con la morte del
mago, vero Antonio?»
Antonio confermò
rincarando: «Anzi… c’è il rischio che una volta morto il suo
incantesimo diventi permanente, meglio lasciarlo vivo».
«Mfh!» mugugnò il
paladino deluso, rinfoderando goffamente lo spadone. «Comunque sarà
bene che codesto incantesimo venga infranto, in un modo o nell’altro,
e senza indugio alcuno, perché Orlando è atteso sul luogo della
pugna! Il destino dell’occidente dipende da lui, o l’incubo
moresco si abbatterà sul Sacro Romano Impero! E ora fatemi strada, è
d’uopo ch’io affronti la bestia che mi ha colpito così
duramente».
«Se si riferisce
all’essere fiammeggiante che ha distrutto la mia scrivania, è
fuggito dalla finestra, temo che ormai sia lontano» dissi.
«Non conosco esseri
fiammeggianti, anche se ho sentito favoleggiare di simili creature
che si dice vivano nel lontano Catai…» rispose Astolfo, «l’animale
a cui mi riferisco è sempre lui, il prode Orlando, che da quando ha
perso il senno è diventato pazzo furioso e tale resterà, per
l’appunto, finché non gli avrò restituito questo!» e agitò
l’ampolla.
«Aha!» facemmo Antonio
e io all’unisono.
«Poffare! E c’ero
quasi riuscito…» si lamentò il paladino, «quando l’ho
finalmente trovato, in questa decadente magione, ho tentato di fargli
inalare il senno, ma lui, ebbro di follia, non ha riconosciuto il
sembiante amico e mi ha duramente colpito ammaccandomi l’usbergo
lucente».
Antonio, Orienne e io
guardammo con aria critica la sua armatura rugginosa.
«Beh si fa per dire…»
bofonchiò lui seguendo il nostro sguardo, «un tempo lo fu, ma poi…
le campagne sono umide, specialmente di notte, si dorme
all’addiaccio, senza un tetto… per non parlare del clima che c’è
sulla luna…»
«Non si deve certo
giustificare» lo rabbonì Antonio. «Certo che questo Orlando
dev’essere davvero temibile con lo spadone tra le mani».
«Invero lo è» assentì
Astolfo, «altrimenti non sarebbe il più prode dei paladini, ma per
fortuna quando l’ho incontrato era disarmato, ecco perché sono
ancora vivo».
«Come disarmato?!»
esclamai «e allora tutte quelle ammaccature come gliele ha fatte?»
«Con i pugni,
naturalmente» rispose il paladino dando la cosa per scontata.
Dovetti sedermi perché
le gambe non mi reggevano più.
«Oh cavolo! Adesso tra
tutte le cose che vagano per il mio parco c’è anche un Orlando
Furioso che sfonda le armature a cazzottoni!»
«Ed è molto
aggressivo?» domandò cautamente Antonio.
«Beh, di norma egli
aggredisce chiunque abbia l’ardire e la sfortuna di incrociare il
suo sguardo… ma la vera iattura è che, folle d’amor perduto,
nella disperata ricerca della bella Angelica, tende ad amare
brutalmente ogni donna che incontra» spiegò Astolfo.
«Ma… amare in che
senso?» domandai atterrito.
«Nel senso che tra
qualche mese le ridenti campagne francesi e spagnole pulluleranno di
piccoli Orlandini e…».
Ma prima che il paladino
potesse finire la frase, dalla cucina giunse, inatteso e prorompente,
l’urlo terrorizzato di mia madre.
«Non voglio che mia
madre partorisca un Orlandino furioso!» urlai.
«Poffare, sarà mia
cura impedirlo!» barrì il paladino estraendo il proprio spadone col
consueto sferragliare.
«Antonio passami quel
martello!» gridai indicando l’utensile con cui, solo qualche ora
prima, mia madre aveva minacciato di spaccare la testa del vicino di
casa. Non era granché come arma, soprattutto se si considera contro
chi avrei dovuto usarlo, ma non avevo altro e mia madre era in
pericolo, non potevo certo tirami indietro. Così ci scaraventammo
tutti in cucina. [...]